Lettera agli amici del monastero di San Mosè, Nebek, Siria, giugno 1999
La lettera di quest’anno è in due parti.
- La prima riguarda la cronaca della comunità e i suoi progetti
- La seconda è una riflessione di padre Paolo.
La cronaca della comunità e i suoi progetti
La comunità monastica di Deir Mar Musa desidera, anche con questa lettera annuale, esprimere di nuovo e cordialmente la sua gratitudine a coloro che in tanti modi l’hanno aiutata. Quando mangiamo e quando ci vestiamo, quando viaggiamo e quando ci curiamo, quando aiutiamo una persona in difficoltà e quando ci impegnamo nella formazione nostra e altrui, ci ricordiamo grati di coloro a cui il Signore ha messo nel cuore la decisione di darci una mano.
Diciamo poi grazie a tutti gli amici che ci hanno scritto inviando saluti e sempre interessanti notizie; e ci scusiamo per non aver potuto tenere una corrispondenza più personale e frequente. Vorremmo inoltre dare nostre notizie a chi segue amichevolmente il nostro cammino. Infine vi racconteremo dei nostri progetti perché chi sentisse interiormente il desiderio di partecipare e collaborare con noi in vari modi possa orientarsi a farlo.
Dunque le notizie. La prima è che nella fatica e nelle contraddizioni siamo stati fedeli alla nostra povera preghiera: alle sette e mezza del mattino, dopo la cura delle capre, la preghiera dei salmi con la lettura biblica e patristica, le intercessioni ed il Padre Nostro; e la sera, alle diciannove e trenta, l’ora di adorazione silenziosa in chiesa seguita dall’Eucaristia. Questi tempi comunitari, con i quali si coniugano i tempi di solitudine personale, si situano al centro della nostra esistenza, la modellano, la nutrono, ci guariscono e consolano e ci sono scuola e sorgente di gioia piena e di reale fraternità.
Nel settembre del 98 la nostra sorella Huda, dopo un anno di esperimento e tre di noviziato, ha espresso la sua scelta con la professione monastica. La famiglia di Huda era presente al completo e c’è stata tanta festa e commozione. Huda, damascena, di rito “greco cattolico” (melchita) e laureata in agraria, ha lavorato a lungo per il Ministero dell’agricoltura. Durante l’estate parteciperà ad un importante convegno a Roma di “quadri” cristiani presenti in diversi contesti musulmani nel mondo.
Elena ha proseguito i suoi studi teologici a Milano, avendo anche più volte l’occasione di comunicare i temi che ci sono più a cuore in diversi incontri con gruppi parrocchiali e più generalmente ecclesiali.
“Abuna” Jak ha appena terminato il terzo anno di studio della liturgia in Libano e siamo contenti di riaverlo in comunità a tempo pieno. Sta cercando di salvare i critici destini della nostra apicoltura in questo anno eccezionalmente secco. Per il resto sarà impegnatissimo a migliorare la nostra preghiera comunitaria e ad ascoltare i molti giovani che si rivolgono a lui.
Abbiamo preso la decisione di impegnarci nell’anno 1999-2000 in una ripresa approfondita della nostra regola, per poter giungere, anche attraverso il dialogo intrapreso con il nostro nuovo vescovo, ad una prima approvazione canonica temporanea della nostra forma di vita prima della fine dell’anno, come ci ha augurato il nostro caro Patriarca Mons. Musa Daud. Inoltre dedicheremo quest’anno più tempo allo studio in comune di questioni teologiche o riguardanti la vita religiosa e da collegarsi con lo specifico della nostra vocazione nel mondo musulmano. Vorremmo, anche per il futuro, allargare tali occasioni di studio ad altre persone qui in Siria, nella speranza di offrire un servizio utile.
Il 2000 sarà anche importante per Jens e Butros che arriveranno, a Dio piacendo, alla fine del noviziato.
Butros è sempre di più un uomo sul quale si può contare. E’ stato in Egitto per collaborare con una comunità che nel Sud del paese opera a favore dei villaggi copti più poveri ed è tornato più sicuro di sé e del suo progetto di vita.
Jens dedica allo studio dell’Arabo un tempo prolungato ed impegnato nell’arabissima Damasco. Oltre che a non voler dimenticare le capre e tutto il resto, è anche impegnato nella costruzione di un monastero virtuale nel ciber-spazio.
Altre persone, siriane e non, uomini e donne, si interrogano seriamente sul desiderio che sentono di unirsi a questa comunità ed altri fratelli e sorelle accompagnano il nostro cammino per periodi più o meno lunghi e ciascuno dà il proprio apporto con spirito di servizio e gratuità.
Fratel Domenico lascia a malincuore l’eremitaggio, con il bel giardino cresciutogli intorno, per assumere la responsabilità del noviziato dei Piccoli Fratelli di Gesù in Libano. Tuttavia la casetta in cima alla montagna non rimarrà deserta e sarà utilizzata sia dai piccoli fratelli e sorelle di Gesù della regione sia dai membri della nostra comunità per periodi più o meno lunghi di solitudine.
Profondamente inseriti nella nostra vita comunitaria sono anche i lavoratori laici con i quali formiamo una sola realtà impostata sul valore della solidarietà e sulla portata spirituale dell’attività manuale, specie se orientata a sperimentare vie di sviluppo economico e di valorizzazione dell’ambiente che siano a vantaggio della collettività nel suo complesso.
Abbiamo acquistato un terreno a Nebek con l’obiettivo di edificare delle abitazioni per le famiglie cristiane della città e con la speranza di poter contrastare così l’esodo della popolazione cristiana in un modo che non guardi solo ai numeri ma bensì al valore, coscientemente vissuto, di tale presenza minoritaria. (Si tratterà di mutui ad interesse zero, ma senza il diritto di rivendita dell’abitazione, per evitare speculazioni e la vanificazione dell’obiettivo di contrastare l’emigrazione, il denaro recuperato finanzierà altri progetti analoghi.)
Quando abbiamo chiesto, alle autorità siriane deputate alla salvaguardia dei monumenti, il permesso di costruire un edificio in pietra per la parte femminile della comunità su di una collinetta ad occidente del monastero, ci è stato opposto un netto rifiuto. Invece è stata accettata l’alternativa da noi offerta di costruire a cento metri in linea d’aria dal monastero nel luogo chiamato “Magharah al-Hayek” (Grotta del Tessitore). Si tratta di un vasto eremitaggio rupestre, dotato d’un’antica cisterna, e caratterizzato da un contesto naturale aspro e suggestivo. Certo le difficoltà si sono moltiplicate e, con esse, i costi. S’è dovuta costruire una nuova lunga (cinquecento metri) teleferica dotata d’un motore elettrico e capace di far montare i materiali per la costruzione dal basso. Il nuovo monastero, che mantiene l’antico nome di Deir al-Hayek, sarà collegato alla costruzione principale attraverso un ponte che passerà al di sopra di una piccola diga per trattenere l’acqua piovana e si proseguirà percorrendo un “passetto” scavato nella roccia; il tutto costruito in modo tale da poter passare da un edificio all’altro senza dover uscire all’esterno.
Visitando il cantiere si ha la sensazione d’essere in un luogo santificato dalle preghiere di tante generazioni di eremiti e che ha mantenuto l’affascinante silenzio che ve li aveva attratti. Le antiche grotte costituiranno così un ampio luogo di raccoglimento anche per il futuro ed un polmone di contemplazione.
In marzo si è svolta la seconda giornata di studio sul programma di sviluppo agro-forestale ed ambientale connesso con il progetto d’una zona protetta denominata “Valle del monastero di S. Mosè”. Questa volta c’erano davvero tutti: il sindaco con i consiglieri comunali, i rappresentanti dei pastori e dei contadini, quelli delle organizzazioni scientifiche internazionali interessate al programma, i rappresentanti di fondazioni d’aiuto allo sviluppo (particolarmente significativa la presenza del rappresentante del Comitato Cattolico Francese per la lotta alla Fame e per lo Sviluppo, CCFD), gli inviati dei Ministeri dell’Agricoltura, dell’Ambiente e del Turismo ed un buon numero di cari amici.
Ora si è formata una commissione permanente per gestire questo progetto che si è anche allargato a quello della trasformazione del grande immondezzaio di Nebek, a tre chilometri dal monastero, sulla nuova strada panoramica che lo raggiunge da Est, in un giardino ambientalista. Questo non significa che tutte le nostre difficoltà economiche siano terminate, infatti non è facile finanziare questi progetti in tutti i loro aspetti e, tanto per fornire un esempio, c’è da sostituire al più presto il nostro trattore esausto.
Chissà che non si riesca a riattivare la scuola di restauro , connessa con la seconda parte del restauro degli affreschi del monastero, entro il 2000. La Commissione Europea ha deciso il finanziamento, ma l’iter burocratico è lento anche perché tutto il lavoro sarà realizzato in collaborazione tra l’Istituto Centrale del Restauro di Roma e la Direzione Generale delle Antichità e dei Musei di Damasco. In vista dell’impossibilità di utilizzare la chiesa durante i restauri, e per avere un luogo centrale per seminari e riunioni o semplicemente per poter mangiare al coperto anche d’inverno con un numero considerevole di persone, abbiamo ordinato, presso gli artigiani della zona, la tessitura d’una tenda tradizionale, chiamata in Arabo una “casa di capelli”, cioè di peli di capra, da montare sulla terrazza del monastero.
La Commissione Europea ha infine concretamente finanziato il nostro programma di dialogo interculturale ed interreligioso di cui la prima realizzazione pratica è costituita dallo sviluppo della biblioteca del monastero. Tale programma prevede necessariamente la partecipazione di altri enti o associazioni cofinanziatori che, nel nostro caso, sono la Fondazione Giorgio Orseri di Roma e Solidarité-Orient di Bruxelles.
Vogliamo inoltre sottolineare l’impegno del monastero nella formazione teologica e, più largamente culturale, dei membri della comunità monastica, dei collaboratori laici e di elementi delle comunità ecclesiale e sociale nelle quali siamo inseriti. La nostra intenzione è quella di organizzare dei corsi intensivi e dei seminari di studio, invitando docenti della regione o di altrove secondo le diverse specializzazioni, e di allargare quanto è possibile tali opportunità di formazione ad elementi esterni alla comunità monastica. Ciò non significa rinunciare ad inviare alcuni membri della comunità a studiare all’estero, ma indica chiaramente il desiderio di sviluppare una formazione inculturata nel nostro contesto e specialmente attenta ad approfondire la nostra vocazione alla relazione dialogica con il mondo musulmano.
Una riflessione di padre Paolo
Ti scrivo, stavolta, dal Pakistan, da Rawalpindi. Per Jens e per me si tratta d’un intenso pellegrinaggio, via terra, con la gente più comune, attraverso la Turchia e l’Iran. Il nostro desiderio è quello di sperimentare e proporre una prospettiva di significativa solidarietà con i credenti in Gesù delle Chiese che sono seminate e disseminate nel vasto mondo musulmano asiatico. Trovatomi in Albania in febbraio ed in Egitto in Aprile, si è fatta più spazio nel mio cuore la complessità del mondo islamico e mi ci sento, di fatto, in patria e a casa.
Sempre più esplicitamente, lo Spirito del Signore ci radica in questa vocazione, che prende corpo in una libera scelta ed un voto: d’aiutare le minoranze cristiane del mondo musulmano ad assumere con amore paziente il ruolo del lievito evangelico nella pasta islamica perché si compia, attraverso il concorso delle libere scelte e dell’impegno sincero di molti, di tutti, il desiderio di Dio d’essere tutto in tutti. Questo implica il discernimento del valore della religione e della società islamica nell’ambito dell’evoluzione globale e del suo senso. Si tratta di voler concorrere a favorire l’efficace partecipazione musulmana ai processi globali aiutando un passaggio da posizioni di polemica tentata di violenza ad una testimonianza collettiva di valori “islamici” irrinunciabili all’interno di più vaste dinamiche. In questo senso si tratta pure d’aiutare le Chiese a comprendere e recepire tale apporto musulmano nella sua originalità e differenza.
A chi ritenesse che così pensando non rinunciamo ancora ad una posizione di superiorità culturale, sociale e religiosa si può tentare di rispondere, ma sarà la vita a convincere, che la nostra aspirazione spirituale è quella di voler comprendere per quale via l’Islam assuma un ruolo nel compimento della storia religiosa della comunità umana. Tale comprensione non avviene a priori, per via teorica; accade invece nell’interazione dialogica, la quale corrisponde, per le presenze cristiane minoritarie, alla categoria evangelica della lievitatura della pasta. Ciò non impedisce di comprendere nella catagoria del lievito anche altre forze e gruppi che non fanno parte della Chiesa storica, ma che agiscono nella prospettiva del Regno dei cieli.
Sempre più il discepolato a Gesù si realizza ovunque nel costituire minoranza, lievito, ma non come minoranza elitaria, esclusiva ed affetta da complesso di superiorità. Ciò si verifica con modalità diverse, sia dove i cristiani siano sociologicamente minoranza, sia dove si ritenga che costituiscano una maggioranza. La Chiesa che vive quest’esperienza sarà allora disposta a convertirsi all’azione dello Spirito nella lievitazione dialogica, a riconoscerla e a lasciarsi trasformare e rievangelizzare da essa.
Tale operazione dello Spirito di Dio resta imprevedibile e non determinabile a priori, anche se intravista, implorata ed annunciata dal dono spirituale della profezia, tanto nella Chiesa come nell’Islam.
Ci siamo convinti che le tradizioni religiose non siano da considerarsi corpi separati ed impermeabili gli uni agli altri. Vorremmo quindi favorire un’efficace comunione di doni, proponendo ed accettando la testimonianza della fede nel linguaggio, la simbologia, la pratica e l’intima esperienza mistica delle “religioni”. Ciò non scolorirà l’autocoscienza della Chiesa d’essere sacramento universale di salvezza, ma invece ne favorirà il radicamento in ciò che le è proprio, assieme alla condivisione serena di ciò è comune ed al rispetto di quanto è specifico delle altre comunità di fede, purtuttavia vivendo e proponendo una dinamica di intima, comune e continua conversione dalle tenebre alla Luce.
Mentre l’autobus, carico all’inverosimile di povere mercanzie, fermandosi presso umilissime moschee per la preghiera dell’Islam, traversava il vasto deserto belucistano, il libro che leggevo mi offrì una frase appropriata:
“Per questo le diverse interpretazioni non sono chiamate a fissarsi ciascuna nelle sue differenze ma, al contrario, prendendo la preoccupazione dell’unità come segno di ricongiungimento, sono chiamate a correggersi e a mutualmente aiutarsi a progredire verso il centro inacessibile dove si trova “la cosa stessa”. Una storia universale della mistica (......) si darebbe come obiettivo di rintracciare l’infinita varietà degli itinerari originali che degli uomini, esiliati ai quattro angoli dell’universo ed alienati in condizioni socio-storiche sempre particolari, hanno saputo inventare per camminare verso la Terra Promessa dell’unità. Essa non pretenderebbe di conoscere in anticipo il luogo della loro convergenza, come se potesse già intravvederlo da un qualche aereo osservatorio. Essa rimarrebbe invece a terra, facendo la spola fra le carovane che stanno progredendo in modo indipendente, notando e comparando le posizioni successive delle une e delle altre, attenta ad individuare, attraverso incessanti rettificazioni ed estrapolazioni, il luogo ideale del loro definitivo incontro.”
Michel Hulin, La Mystique Sauvage, Parigi, 1993 pp. 282, 283.
Volendo accettare, anche per il dialogo esistenziale interreligioso, ciò che qui si dice, mi pare efficacemente, per lo studio delle esperienze mistiche nelle diverse tradizioni religiose, mi chiedo in che senso sia a me allora lecito ritenere, nella fede, che il “luogo” ideale dell’incontro sia ancora essenzialmente, metastoricamente, quello espresso da Gesù nel Vangelo di Giovanni: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (12, 32). Laddove subito si comprenderà l’“elevazione” sulla croce fino all’apertura del costato e la salita al Padre dopo la resurrezione. (Va detto qui che tale “elevazione” di Gesù è misteriosamente recepita dal Corano, insieme colla prospettiva del secondo ritorno, proprio nel momento in cui lo scandalo della croce è apertamente rifiutato). Questo mistero è per me, misticamente nella fede, formalmente universale sulla base dell’analogia con la capacità del cuore di contemplare, almeno tendenzialmente, la totalità. Tuttavia il mio cuore limitato non pretende di imporre nulla ad alcuno, ma solo d’essere testimone d’una luce che ad esso si presenta come “luce per ciascuno” e che non gli impedisce anzi lo guida a riconoscere le molte belle luci che, brillando in diverse nicchie, tutte attingono ad un’unica inestinguibile fonte.
L’Islam, nella sua forte e polemica coscienza di costituire l’appello finale all’unità, nell’obbedienza e la giustizia, per un’umanità che viene costituita come comunità (Umma) di solidali adoratori dell’Unico Misericordioso, si presenta come una luce grande e bella e cosciente d’una vocazione all’universalità, benchè offuscata anch’essa da nebbie e foschie. La nostra (della comunità monastica ed ecclesiale di Deir Mar Musa) speranza, la nostra vita, è quella di rendere testimonianza alla verità che è in noi e che è in altrui.
Quando una luce raggiunge il tuo occhio, per il fatto stesso, ti penetra, ti abita e rallegra il tuo cuore. Questo è avvenuto in noi quando abbiamo visto la luce musulmana; ma ciò, credimi, non ha offuscato la luce battesimale, l’ha invece come ravvivata. Sono contento di pensare alla nostra vocazione nel mondo musulmano come ad una partecipazione alla valorizzazione ed alla realizzazione della vocazione universale ed universalistica dell’Islam, valorizzando e realizzando così la dimensione universale ed universalistica della nostra vocazione cristiana. L’idea che queste passioni particolari per l’universale possano coniugarsi ed integrarsi, senza confondersi o diluirsi, costituisce una speranza spirituale che mi è carissima.
Siamo partiti dall’antica capitale della Siria, l’Antiochia degli apostoli, abbiamo percorso la patria di Abramo, siamo giunti all’Ararat, abbiamo celebrato nello splendido monastero armeno di S. Taddeo in Iran, abbiamo visitato i Piccoli Fratelli e le Suore della Carità che servono i malati di lebbra a Tabriz, siamo rimasti senza parole di fronte alle chiese armene di Isfahan decorate con affreschi che sposano l’arte rinascimentale europea con l’arte cristiana orientale e quella persiana ed indiana, abbiamo ammirato l’azzurra e luminosa bellezza delle moschee ed i monumenti di questa maestosa Venezia d’Asia e ci siamo raccolti in preghiera unendoci a quella canonica dei compagni di viaggio musulmani.
Ora, contemplando questo mistero qui, sulla riva del grande fiume della saggezza d’Asia, dove giunse Alessandro, l’Indo, ritrovando i luoghi sacri degli antichi Bramini, visitando i resti della civiltà sincretica ellenistico-buddista di Gandara, entrando con riverenza negli antichi monasteri e riposando lo sguardo sui tratti purissimi del Budda illuminato, salendo ai santuari dei sufi musulmani e mescolandoci alle folle delle moschee, rintracciando i segni d’antichi passaggi cristiani, sui passi dell’apostolo Tommaso, di cristiani assiri e d’armeni, attraverso la Persia , e riconoscendo quelli della presenza, lungo i secoli, di comunità cristiane locali, pregando sulle vecchie tombe rovinate dei missionari figli di S. Francesco del tempo coloniale, unendoci alle toccanti preghiere dei cristiani poveri nei loro quartieri di emarginati sociali, ed infine incontrando lo sguardo dei profughi afgani nelle precarissime loro abitazioni qui accanto, ci pervade un umile, sofferto, largo, mite, senso di gratitudine e d’unità in Gesù di Nazaret, “l’Individuo”, il nuovo Adamo divinizzatore.
Eccoci allora alle prese con l’intuizione di dovere e di voler fondare un giorno una comunità orientale di preghiera, di lavoro ed accoglienza anche qui sulle rive dell’Indo, sognando in prospettiva altre fondazioni che costituiscano come le stazioni d’un ideale pellegrinaggio a Gerusalemmme dei cristiani d’Asia e come gesto d’una solidarietà evangelica con il mondo musulmano nell’orizzonte del comune impegno per il bene, specialmente per la consolazione dei poveri e la soddisfazione di chi ha fame e sete di giustizia.
L’eco delle terribili esplosioni della guerra nel Kossovo giunge fin qui e lascia tutti intimamente lacerati e tanto più ciò è doloroso per chi si sente in profonda solidarietà tanto con i destini delle Chiese ortodosse che con quelli delle popolazioni musulmane. Ciò non ci spinge alla disillusione ma bensì ci conferma della bontà della scelta che la Provvidenza ci propone. Ci incoraggia la bella comprensione avvenuta tra noi viaggiatori ed i cristiani pachistani incontrati, al punto che con alcuni di loro abbiamo programmato dei periodi di esperienza a Deir Mar Musa.
Tra i luoghi che ci sono parsi adatti ad una fondazione voglio accennare in particolare a Dalwal, presso una vecchia scuola rurale di Cappuccini semiabbandonata, su degli alti colli a metà strada tra la capitale e Lahore. Si tratterebbe di collegare l’eventuale monastero di preghiera e di accoglienza con una scuola particolarmente attenta ai temi dello sviluppo e dell’ambiente. Il vescovo di Rawalpindi-Islamabad è favorevole alla nostra idea, la quale è a sua volta realista del realismo della fede, cioè vediamo che chi ci ha chiamati, il Signore, chiama anche altri, e che la risposta, la quale con tanti limiti abbiamo saputo dare, anche altri, potrà darla.
Abbracciandoti amichevolmente in Gesù,
p. Paolo