Le lacrime degli esclusi
La lettura della Sacra Scrittura è spesso costruita sul filone dell’autoidentificazione della Chiesa con il nuovo Israele, con il gruppo della promessa, con il popolo eletto. Per esempio, la Chiesa si riconoscerà in Sara piuttosto che in Agar, vedrà se stessa in Giacobbe piuttosto che in Esaù, nel popolo eletto della Palestina piuttosto che nei popoli della terra di Cana. Così, però, si perde una parte non indifferente del pathos del testo, dove c’è una nostalgia dell’escluso, il dramma morale del non essere eletti, ma schiavi di un altro.
Uno dei testi che più drammaticamente rappresentano questo discorso è la vicenda di Abramo e di Ismaele, il figlio che egli aveva avuto con Agar, la serva di Sara (cfr Gn 21, 8-21). È il dramma in cui Abramo deve sacrificare il suo primogenito. Secondo i musulmani il Corano sembra dire che il figlio sacrificato, alla lettera «sgozzato», è proprio Ismaele. Intendiamoci, non c’è uno sgozzamento di Ismaele, ma c’è un’obbedienza penosa, sofferta, di Abramo alle gelosie di Sara. Su indicazione di Dio, Abramo scaccia Ismaele e sua madre Agar. Così, quando Dio chiede ad Abramo di offrire il figlio Isacco, in realtà Abramo ha già offerto Ismaele. Ismaele è il primogenito.
Se imparassimo a leggere il mistero della Chiesa nell’esclusione e non solo nell’elezione, allora le cose si illuminerebbero con altra luce. Abramo obbedisce alla logica dell’elezione e caccia la sua serva. Ma nella logica evangelica è proprio l’escluso che diventa l’eletto. Allora alcuni simboli cominciano a parlare: Abramo dà pane e acqua a questa donna carica del bambino. Ebbene, se quando Abramo riceve da Melchisedech l’offerta del pane e del vino sappiamo leggere i segni eucaristici, perché quando Abramo dà ad Agar acqua e pane non sappiamo riconoscere i sacramenti della Chiesa? Tra l’altro con questa misteriosa assenza di vino, che ci parla molto chiaramente di islam. Ancora, Ismaele è buttato sotto un arbusto del deserto: come non pensare alla croce? Agar - questa donna carica del figlio, che porta il peso del figlio - si nasconde dietro il suo velo di sofferenza: si può non pensare a Maria sotto la croce? Ma nessuno dei padri della Chiesa ci ha pensato, perché quella era la «maledetta», la madre dei musulmani.
E dunque Ismaele è lì, grida per la sete, mentre Agar piange: sono le prime lacrime della Bibbia. Non aveva pianto Adamo, non aveva pianto Eva, non aveva pianto Caino, queste lacrime materne sono le prime. Le viene mostrata l’acqua, sgorga l’acqua di salvezza. Per i musulmani questo episodio è ricordato ancora oggi durante il pellegrinaggio alla Mecca. Noi cristiani non possiamo non pensare a Gesù crocifisso, che grida: «Ho sete!».
Si individua così un’interpretazione di questo episodio dell’Antico Testamento che, pur riconoscendo i segni dell’elezione, tuttavia si fa carico dell’esclusione. Questo non è sempre stato compreso nella storia della Chiesa. Intitolando «La sete di Ismaele» questa rubrica sul dialogo islamocristiano, vogliamo riconoscere il valore cristologico ed ecclesiologico del grido degli esclusi: un grido qualche volta scomposto o addirittura terrificante, ma un grido che la Chiesa non può non riconoscere come pertinente la storia della salvezza.
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