Da Roma alla Moschea di Damasco: portata e prospettive della visita di Giovanni Paolo II (2001)
È stato il mezzo televiso quello che ha permesso di valorizzare appieno la decisione di Giovanni Paolo II di togliersi le scarpe per visitare la Grande Moschea degli Omayyadi a Damasco. Traversata faticosamente la navata, le cui volte sono ancora sostenute dalle colonne dell’antica Cattedrale di Giovanni Battista, il Papa si è finalmente potuto raccogliere in silenzio, in preghiera, presso il memoriale in cui si conservano le reliquie del Precursore.
All’interno della moschea è entrato solo lo stretto seguito papale, ed anchenel cortile solo un ridotto numero di alte personalità musulmane e cristiane è stato ammesso. Si notavano rarissime presenze femminili avvolte nell’abito legale musulmano e costituite da persone che avevano relazione, a diverso, con i vertici dello Stato. Le sedie erano state riservate esclusivamente al Pontefice Romano, al Gran Muftì della Repubblica ed al Ministro siriano del Culto dal quale era dipesa in gran parte l’organizzanione dell’evento; tutti gli altri in piedi, compresi i diversi Patriarchi titolari della sede di Antiocha. Unica e significativa eccezione quella della cattedra dove un noto lettore del Sacro Corano si è installato per la recitazione solenne di alcuni suggestivi versetti. Le note della lettura del sacro testo riempivano la magica atmosfera del cortile della Grande Moschea, al tramonto, mentre si accendevano i colori degli antichi mosaici bizantini rappresentanti gli agognati paradisi islamici così simili ai deliziosi giardini dell’oasi di Damasco, oggi in gran parte sommersi dal cemento. Tutti i presenti, , portassero il turbante o i diversi copricapi dei prelati cristiani d’Oriente e d’Occidente, avvertivano l’importanza di quello storico avvenimento nel fascino della ripetuta espressione coranica “hua Allah, hua Allah” (‘è Dio, è Dio”).
I discorsi, sicuramente opportuni, non potevano essere allo stesso livello di quegli istanti inedito. Paradossalmente, la scena adeguata a quell’ avvenimento era offerta, tutti ne erano consci, dal tragico contesto mediorentale, più o meno timidamente richiamato dagli oratori.
Certo, iu siriani avevano voluto proffitare di quell’occasione d’essere internazionalemente ascoltati per esprimere l’immenso sentimento di araba frustazione per quella che è sentita come l’“ingiustizia assoluta” che fa dunque del popolo palestinese e del mondo arabo-musulmano la vittima assoluta. E’cosi che si può comprendere il criticato passaggio del discorso del giovane Presidente della repubblica Bashar al-Asad nel ricevere l’illustre ospite all’aeroporto, laddove riteneva opportuno ricordare le sofferenze inflitte al Cristo insieme alle persecuzioni verso il Profeta dell’Islam da parte del popolo ebraico. Accusato in seguito di atteggiamento antisemita egli rispondeva ricordanto che anche gli arabi sono semiti.
Il Papa, che con grande sincerità a convinzione aveva definitivamente girato la pagina degli attegiamenti antisemiti nella storia della Chiesa (e basti ricordare la visita alla Sinagoga di Roma e la richiesta di perdono al Mura del Pianto), accettava di visitare la città fantasma di Qunaytra, simbolo della coscienza siriana di aver subito ingiustizia e barbarie. Dalle rovine della capitale del Golan ancora ocupato, presso la linea del cessate il fuoco, levava un’accorata preghiera per la pace. Accettava, per l’opportunità di riequilibrare la posizione della Chiesa, di farsi strumentalizarre? Oppure, più semplicemente e più profondamente, Giovani Paolo II assumeva la lacerante ed irrisovibile interna contraddizzione del conflitto mediorentale dove è impossible tenerxi ad un neutrale livello di diplomatico equilibrio senza cadere in peccati di omissione? Il Papa sceglieva di esser vicino agli arabi, arabi cristiani ed arabi musulmani, nel luogo simbolo del conflitto, certamente per dire pure la sua solidarietà con il popolo palestinese ancora orfano d’una patria indicando tuttavia caparbiamente la via del dialogo e del negoziato senza negare nulla di quella fraternità cin il popolo d’Israele che proprio lui aveva contribuito a rinsaldare.
Che il Pontifece non fosse appiattito sull parole d’ordine atlantiche era già stato chiaro nell’esplicito desiderio di iniziare il suo pellegrinaggio biblico e giubelare a partire dall’Iraq, dove avrebbe confermato l’anticonformista posizione assunta fin dalla Guerra del Golfo. Quel viaggio non si fece per una serie di complessi motivi legati peure ai fragili equilibri del “picolo resto” della comunità cristiana irachena. In Medio Oriente si ritenne che vi era stato un veto dell’amminstrazione americana che si conuigava specularmente con le proteste del Raìs di Baghdad contro le sanzioni.
Quella che può apparire comne contraddittorietà nella posizione diplomatica del Vaticano, è piuttosto il processo iniziato ad Oslo e proseguito con grandi fatiche e lunghe interruzioni ed incongruenze fino all’esplosione dell’Intifada dell’Aqsa scatenata dall’aperta e programmata provocazione di Ariel Sharon. Non che mancassero alla diplomazia vaticana di poter accetare i termini di quegli accordi, nè era impossibile prevedere il profondo rifiuto accordi che sembravano costruiti su un un’idea laica e pragmatica, addirittura secolarizzata, della convivenza israelo-araba. Era significativo che le trattative di pace naufragessero proprio sulla spianata del Tempio di Salamone, simbolo della vocazione religiosa del Popolo d’Israele di testimonianza al Dio di Abramo, di Isacco e di Giaccobe ed alla quale è legato il sacramento del divino dono della Terra Promessa la cui dimensione storico-biblica è ritenuta essere, dagli israelianidi oggi, l’area geografica compresa tra l’Hermon, il lago di Tiberiade, il Giordano, il Negev ed il Mediterraneo. Impossibile, allo stato delle cose, trattare senza tradire.
Per i musulmani palestinesi, su quella stessa spianata della Moschea al-Aqsa e del Duomo della Roccia si concentra simbolicamente tutto il contenzioso. Occorre ricordare che anche per la religione musulmana Gerusalemme è la città dell’adunata escatologica nel giorno della resurrezione. Il possesso islamica costituisce l’erede legittimito di tutta la linea profetica autenticamente monoteista tanto biblica che extra biblica. E proprio cercando di ottenere il potere su “la Santa”, al-Quds, le varie forme storiche di “Anticristo” (al-Dajjal), crociati, colonialisti, sionisti, intendono contrastare e negare la portata universale della missione dell’Islam.
Da questo punto di vista la posizione ebraica e quella musulmana sono speculari e concorrenti. Certo, proprio per i musulmani, non à impossibile comprendere la posizione israeliana di rivendicazione della Cità Santa nonostante il fatto che la città non fosse più stata ebraica per molti secoli; poichè non è il fattore tempo quello che protrebbe far rinunciare, ad esempio, ai diritti musulmani sulla città della Mecca. Anche se è pur vero che se la Mecca è sempre stata araba lo stesso non si può dire di Gerusalemme la quale, e la Bibbia to testimonio insieme con l’archeologia e le altre fonti storiche, è stata “palestinese” (e qui l’anacronismo è coerente con le categorie attualmente utilizzate dalle popolazioni vicino-orientali) prima d’essere la capitale del re Davide e del Tempio di Salamone; e poi di nuovo fu stabilamente “palestinese” in epoca bizantina fino a diventare araba con la conquista islamica. Ciò non toglie nulla alla forza della rivendicazione palestinese ed islamica ed anche con i diritti della cristianità sia palestinese che, più ampiamente, araba ed in defnitiva universale.
E incomprensible a molti, e per i musulmani è scandoloso che il mondo occidentale secolarizzato faccia proprie le rivendicazioni sacre dell’Ebraismo negando quelle altrettanto sacre dell’Islam. E non è coretto dire che il popolo d’Israele rivendica la sua patria negata lungo i secoli dagli altri popoli e che in fondo, per Gerusalemme, si tratta di restituire la capitale al suo ovvio proprietario... Infatti è Israele a credrer di non essere un popolo come gli altri e d’essere stato caricato d’una missione che è in prospettiva universale. E la fef d’Israele sulla portata religiosa di Gerusalemme che sta alla radice della sacralità della Città Santa tanto per i cristiani che poi per i musulmani. E tutti e tre ritengono di essere legittimamente eredi di qeulle antiche promesse fatte da Dio ad Abrahamo. Il santo Patriarca è sepolto ad Hebron, al-Khalil degli arabi, dove sono avvenuti alcuni degli episodi più odiosi di violenza tra israeliani e palestinesi proprio a causa dell’importanza simbolica del riferemento abramitico dimenticando però che nella Bibbia i due figli di Abramo, Ismaele ed Isacco, si ritrovarono uniti nella pietà filiale al momento della sepoltura del Padre dei credenti.
La pace, quando ci sarà una pace degna di tal nome, sarà il frutto d’un lungo processo d’evoluzione anche dogmatica sia degli israeli, come dei musulmani e dei cristiani.
Non si possono lasciar soli gli israeliani ed i palestinesi. Ocorre attivare delle opportunità di riflessione e di rinegoziazione oserei dire simbolica. Si tratta di coinvolgere le più elevate istanze religiose accanto a quelle culturali e politiche. Occorre coinvolgere l’ala musulmana ed occorre coinvolgere appieno il mondo religioso ebraico in tutte le sue diverse espressioni. Anche i cristiani devono avere un ruolo nell’elaborazione teorica dell’alternativa al disastro attuale. In fondo, in una logica culturale globale, l’itinirerario teologico delle delle religioni abramatiche deve pure essere messo in relazione, auguriamocelo, costruttiva, con le altre grandi unità religiose mondiali ed innanzizutto asiatiche. La distruzione delle grandi statue del Budda in Afghanistan costituisce già un importante campanello d’allarme.
Riconoscere la legittimità del progetto religioso-politico altrui, insieme con l’onesta rivendicazione delle legittimità del proprio progetto, costituisce il primo passo. Gli ebrei non possono rinuniciare alla Terra dei Padri e ritengono che questa generazione forse l’utima ancora in grado d’operare per acquisire ad Israele “tutta” la Terra Promessa. Questo però è ritenuto un atto d’inimicizia irriducibile da parte islamica anche perchè considerato parte d’un progetto sionista universale. Inoltre l’Islam non può rinunciare al suo proprio progetto universale che cristiano è recepito da parte islamica come oggetivamente e strategicamente alleato e succube dei piani sionisti. Non sono certo i veti americani, sistemeticamente favorevoli ad Israele, e volti a vanificare le decisioni ONU, quelli che faranno cambiare idea ai musulmani.
Evidente allora che in questo momento non ci sono ancora le condizioni per una pace giusta e duratura. Converrebbe trovare delle soluzioni di passaggio, e per cominciare occore l’aiuto internazionale per raffozare il principio che nessun accordo sarà possible senza rinunciare a vloer umilare l’entità culturale, reliogosa e nazionale altrui. C’è da assumersi l’onere di pensare a soluzioni per gradi che riescano ad intravvedere e progettare una Terra Santa israeolo-palestinese. La proposta d’uno stato binazionale non è nueva, come non è nueva quella d’uno stato laico pluriculturale. La formula giusta lo troveranno assieme i palestinesi e gli israeliani una volta che gradualemente si siano ritrovate le vie del dialogo della reciprocità a partire de una tregua generale garantita dall’ONU.