Voglio tornare

Erano una trentina, soprattutto palestinesi, profughi in diversi Paesi arabi, europei e d'oltre Atlantico, accompagnati da amici siriani e d'altrove. Cosa fa sì che una persona che vive tranquillamente sulla terra dei suoi avi diventi un giorno solidale con un profugo, un rifugiato? La condizione del «senza terra», dell'esiliato, è specchio di realtà che ci riguardano tutti.


Mi chiedo come mai giovani che fondano un'associazione mondiale per il «diritto al ritorno dei palestinesi» scelgano un monastero nel deserto per la loro gita? Mi chiedono di parlare e sono in difficoltà.

Si sente spesso - dico - il comodo ritornello diplomatico: «I giovani palestinesi sono ormai inseriti nei Paesi d'accoglienza, arabi con gli arabi, non hanno difficoltà ad assimilarsi; e se approdano in Occidente mantengono la nostalgia ma puntano ad un inserimento stabile». Naturalmente, questo modo di parlare è comodo per chi è alleato dello Stato d'Israele costruito sul «diritto al ritorno» degli israeliti da tutto il mondo e sulla negazione del diritto dei palestinesi di restare a casa propria.

Ai miei amici in visita ho detto tre cose difficili da dire e da udire, sulle quali potrebbero convenire forse gli amici coraggiosi israeliani di «Pace subito».

La prima cosa da dire è che «siamo tutti palestinesi»! In fondo abbiamo tutti perso la Terra. L'abbiamo persa rendendola inabitabile attraverso l'inquinamento, gli ammassi di metallo nelle ore di punta, i muri e i reticolati a protezione della rapina privata, le vedette guardia coste per evitare l'arrivo dei poveri, i mille metaldetector del conflitto tra civiltà... Quando la vita è insopportabile la Terra è persa! Riconquistare la Terra dunque non è solo affare dei palestinesi.

La seconda cosa da dirci ce l'ha insegnata il papa polacco ed è che «non c'è giustizia senza riconciliazione e che non c'è riconciliazione senza perdono». Questo significa che spesso si costruisce su perdite irreparabili e su sconfitte invendicate. Ciò non vuol dire perdere il senso della giustizia, né dar prova di cinico realismo, ma significa trascendere la giustizia umana verso un di più messianico.

La terza cosa da dire nasce dal sentimento di non aver diritto di predicare le due prime affermazioni ai profughi quando non si è noi stessi in tale condizione. Sono allora loro a parlarci; sono gli esclusi che ci evangelizzano. Gli ultimi sono detentori d'una profezia che solo loro possono annunziare e celebrare a favore di tutti. Gli emarginati sanno far largo nella loro tenda e ci ospitano nella loro umiliazione preoccupandosi di non umiliarci!

Nessuno si azzardi a tornare al facile: «Beati poveri, quanto siete più fortunati di noi, poveri ricchi!». La rabbia salutare e catartica dei cacciati di casa ci leverà la pace.


© FCSF - Popoli

Questo Articolo era pubblicato nella edizione di novembre 2008 della revista popoli

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