Intercessione
B. è un giovane barbone, schizofrenico, di famiglia cristiana armena. Giunto col freddo dell'inverno, nero come la strada, faceva paura. Mi è piaciuto il modo in cui i ragazzi della comunità se ne sono occupati: lavato e rivestito, era già un altro. Ha fatto il nido qui, ma la notte di Pasqua, il disastro: la montagna risuonava delle sue invocazioni, inni e canzoni, dove si alternavano armeno, curdo, turco, ebraico, aramaico ed arabo. Nel delirio di B. tutta l'angoscia della regione, il pathos religioso ma anche la follia della violenza. Poi B. è stato ricoverato in manicomio.
Ci rendiamo conto di quanto psicopatologici, sul piano socio-religioso, siano i conflitti culturali odierni? Quali medicine ci riporteranno alla condizione «naturale» della carità fraterna?
Per tanti occidentali è difficile capire quanto insopportabile sia per gli arabi, siano essi cristiani o musulmani, la celebrazione dei sessant'anni dello Stato d'Israele. La crisi libanese, come quella irachena, sono interpretate qui come ulteriori episodi dell'aggressione occidental-sionista e della necessaria resistenza, sempre più connotata religiosamente. Soffro davvero nel notare che, in quest'ottica, anche la democrazia è vista come uno strumento del nemico. C'è demagogia e manipolazione nei campi contrapposti, ma questo non basta a spiegare!
Monaci e monache di Deir Mar Musa, abbiamo partecipato ad Aleppo, in una moschea di amici, ad una serata sufi con canti e danza mistica. Poi, sedutici, lo Sheikh ha chiesto a un giovane torinese musulmano di salmodiare alcuni versetti coranici: «Oh, anima tranquilla, torna al tuo Signore compiaciuta ed appagante; entra tra i miei servi, entra nel mio paradiso» (Cor. 89, 27-30). Lo Sheikh ha interpretato questo «entrare» come l'espressione della massima unione con Dio: l'anima è rinviata a servire gli uomini, ad impegnarsi per la loro salvezza. Provo tenerezza verso questi giovani. La mistica li salva dalla deriva fondamentalista, eppure alcuni sono in pericolo perché troppo forte è il loro sentirsi aggrediti e negati, troppo chiuso l'orizzonte, soffocata la speranza. Persino il contrasto tra sunniti e sciiti è visto come una macchinazione del nemico volta ad indebolire dall'interno la compagine musulmana.
Il cardinal Martini, nel suo soggiorno a Gerusalemme, ha voluto inter-cedere, passare in mezzo. L'esser schierati è tuttavia un fatto culturale ereditario. Per il fatto stesso d'appartenere a questo o a quel gruppo, i nostri sentimenti e le nostre reazioni sono come programmati, automatici. Noi che vorremmo crederci oggettivi e imparziali, siamo invece schierati dalla nascita. Penso ai giovani che a Torino hanno manifestato contro Israele, accusati d'esser antisemiti e paleo-proletari. Anche loro sono schierati, come George W. Bush ed altri andati a Gerusalemme per festeggiare l'anniversario.
Come cristiani ci sentiamo spesso al di sopra delle parti. Ad un professore israeliano di scienze politiche, ho detto, durante un convegno, che, nell'irrisolvibilità del conflitto israelo-palestinese, giudeo-arabo ed ebraico-musulmano, il ruolo del discepolo di Gesù è quello d'intercedere e nel proprio cuore riconciliare gli opposti. L'amico israeliano ha reagito trovandomi tipicamente «cristiano», del gruppo più pericoloso, di quelli che si credono chissà chi e dimenticano tanto la loro storia antisemita come il loro passato coloniale.
Tuttavia non mi rassegno. Accetto d'essere un animale creato per vivere in branco; accetto la storia complessa delle mie predisposizioni; eppure sento che seguendo Gesù di Nazareth trovo come un'uscita d'emergenza verso una solidarietà trasversale, che si vorrebbe non violenta ma che non scomunica i violenti contrapposti. Non mi meraviglia più esser considerato profetico da alcuni, un infiltrato del nemico da altri, e di chiedermi se non sia ormai il caso di domandare, io stesso, il ricovero!
Per tanti occidentali è difficile capire quanto insopportabile sia per gli arabi, siano essi cristiani o musulmani, la celebrazione dei sessant'anni dello Stato d'Israele. La crisi libanese, come quella irachena, sono interpretate qui come ulteriori episodi dell'aggressione occidental-sionista e della necessaria resistenza, sempre più connotata religiosamente. Soffro davvero nel notare che, in quest'ottica, anche la democrazia è vista come uno strumento del nemico. C'è demagogia e manipolazione nei campi contrapposti, ma questo non basta a spiegare!
Monaci e monache di Deir Mar Musa, abbiamo partecipato ad Aleppo, in una moschea di amici, ad una serata sufi con canti e danza mistica. Poi, sedutici, lo Sheikh ha chiesto a un giovane torinese musulmano di salmodiare alcuni versetti coranici: «Oh, anima tranquilla, torna al tuo Signore compiaciuta ed appagante; entra tra i miei servi, entra nel mio paradiso» (Cor. 89, 27-30). Lo Sheikh ha interpretato questo «entrare» come l'espressione della massima unione con Dio: l'anima è rinviata a servire gli uomini, ad impegnarsi per la loro salvezza. Provo tenerezza verso questi giovani. La mistica li salva dalla deriva fondamentalista, eppure alcuni sono in pericolo perché troppo forte è il loro sentirsi aggrediti e negati, troppo chiuso l'orizzonte, soffocata la speranza. Persino il contrasto tra sunniti e sciiti è visto come una macchinazione del nemico volta ad indebolire dall'interno la compagine musulmana.
Il cardinal Martini, nel suo soggiorno a Gerusalemme, ha voluto inter-cedere, passare in mezzo. L'esser schierati è tuttavia un fatto culturale ereditario. Per il fatto stesso d'appartenere a questo o a quel gruppo, i nostri sentimenti e le nostre reazioni sono come programmati, automatici. Noi che vorremmo crederci oggettivi e imparziali, siamo invece schierati dalla nascita. Penso ai giovani che a Torino hanno manifestato contro Israele, accusati d'esser antisemiti e paleo-proletari. Anche loro sono schierati, come George W. Bush ed altri andati a Gerusalemme per festeggiare l'anniversario.
Come cristiani ci sentiamo spesso al di sopra delle parti. Ad un professore israeliano di scienze politiche, ho detto, durante un convegno, che, nell'irrisolvibilità del conflitto israelo-palestinese, giudeo-arabo ed ebraico-musulmano, il ruolo del discepolo di Gesù è quello d'intercedere e nel proprio cuore riconciliare gli opposti. L'amico israeliano ha reagito trovandomi tipicamente «cristiano», del gruppo più pericoloso, di quelli che si credono chissà chi e dimenticano tanto la loro storia antisemita come il loro passato coloniale.
Tuttavia non mi rassegno. Accetto d'essere un animale creato per vivere in branco; accetto la storia complessa delle mie predisposizioni; eppure sento che seguendo Gesù di Nazareth trovo come un'uscita d'emergenza verso una solidarietà trasversale, che si vorrebbe non violenta ma che non scomunica i violenti contrapposti. Non mi meraviglia più esser considerato profetico da alcuni, un infiltrato del nemico da altri, e di chiedermi se non sia ormai il caso di domandare, io stesso, il ricovero!
© FCSF - Popoli
Questo Articolo era pubblicato nella edizione di agosto / settembre 2008 della revista popoli
Italian
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