Libertà di coscienza
Abd-Allah (Servo di Dio) è d'un Paese dell'Africa del Nord. A trent'anni è stato battezzato da protestanti evangelici. Poi, nel Vicino Oriente, è stato accolto per alcuni anni da una comunità monastica ortodossa dove ha ricevuto il sacramento della confermazione. Infine, dicendo di propendere per il cattolicesimo, è approdato da noi a Mar Musa. Ma questo non può essere il suo posto perché non avrà mai un documento di residenza. Inoltre, realisticamente, non possiamo essere allo stesso tempo monastero del dialogo e postazione avanzata dell'evangelizzazione. La complementarietà dei carismi disegna il nostro orizzonte di Chiesa, il che non configura una staticità di compiti ma una comunione di povertà e di limiti. Occupatomi di diversi casi dolorosi analoghi a quello di Abd-Allah, ho sostenuto per iscritto, presso le autorità ecclesiali, che la promozione della libertà di coscienza non può esaurirsi in una rivendicazione di principio presso le organizzazioni internazionali. Occorre partecipare, a tutti i livelli, ad intessere reti d'aiuto e protezione concrete. Si tratta di cercare nuovi inserimenti sociali ed ecclesiali per i «rifugiati di coscienza». Certo, alcuni «convertiti» lo sono in vista dell'emigrazione in Occidente. Ricordo un signore che venne in gran segreto a dirmi: «Voglio il battesimo ». «Dove vuoi emigrare?», gli chiesi; e lui: «Ovunque, in Europa o in America!».
Abd-Allah è rientrato una prima volta in patria. Poi è tornato qui un mese fa senza preavviso, in condizioni psicologiche compromesse. L'altro giorno mi ha chiesto: «Se ridivenissi musulmano sarebbe peccato?». «Ma perché - dico io -, è forse vietato ai musulmani amare Maria, imitare Gesù?». Preghiamo che Abd-Allah possa ritrovare la serenità e la gioia d'essere discepolo di Gesù secondo quei modelli umilissimi di Chiesa compatibili oggi con la società musulmana. L'esercizio pubblico della libertà di coscienza non è la priorità delle priorità ecclesiali. Viene prima il valore della presenza seminale e di lievito evangelico, non in vista della fine dell'Islam, ma della gloria di Dio nell'Islam.
Sono sceso stamane al cantiere del Visitor Center, all'ingresso del parco naturale, culturale e religioso della valle di Deir Mar Musa, e ho preso il tè con gli operai. Abu Raed, sulla trentina, è già in piedi per la preghiera. Chiedo chi degli altri pregherà con lui. Risponde che solo il più giovane è fedele alla preghiera, ma preferisce recitarla dopo il lavoro. «Gli altri - dice ridendo - finiranno a lastricare l'inferno». Lo guardo mentre esegue le abluzioni: le mani, gli avambracci, il volto, fino ai piedi. La sua concentrazione è di una bellezza e una pietà estreme. È con noi da quasi dieci anni. Va a casa per il week-end, al suo paesino in cima all'Anti-Libano. Ha cominciato come manovale e ora è il nostro capomastro. Le pietre gli obbediscono: muri e archi perfetti. Artista, la sua stanza è ormai decoratissima e coloratissima; sembra la moschea degli Omayyadi: floreale, paradisiaca. È anche il suo oratorio, oltre che il luogo dove ci accoglie per un tè e una conversazione. La parte musulmana della biblioteca è il suo regno. Tuttavia l'ultima volta che gli ho chiesto cosa stesse leggendo mi ha risposto: «la Bibbia». Cosa pensi di noi, lo comprendo meglio quando vedo l'affetto e la venerazione che ci riserva la famiglia quando lo visitiamo per le feste dell'Islam. Abu Raed ci ha regalato due icone dipinte su pietra, la Vergine e il Cristo, per la nuova cappella nella grotta dell'eremita. Vi ha unito d'istinto tradizione bizantina e arte islamica. D'una vecchia cassa per il sapone di Aleppo ha fatto, di sua iniziativa, uno scrigno multicolore a grappoli d'uva e covoni di grano. Sul coperchio ha scritto, in caratteri arabi antichi: «Io sono il pane della vita». Ma sul lucchetto ci ha tenuto a incidere «Allah».
© FCSF - Popoli
Questo Articolo era pubblicato nella edizione di giugno / luglio 2008 della revista popoli
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