Castità e Globalizzazione, Avvento 2001

Paolo Dall'Oglio

Da tempo avrei voluto scrivere qualche pensiero sulla castità evangelica consacrata nel quadro globale ed interreligioso. Ci si potrebbe chiedere cosa centri questo con la crisi mondiale che stiamo attraversando e cosa di buono possa apportare.

Col suo libro "Dalla Montagna Sacra - un viaggio all'ombra di Bisanzio", libro peraltro interessante benché non tanto coerente, William Dalrymple, molto preoccupato per il rischio d'estinzione dei cristiani d'Oriente, e soprattutto nostalgico della società tardo antica, mi ha turbato raccontando le violente scorribande dei monaci dei deserti egiziani, e dei loro simpatizzanti, contro la civilissima Alessandria, dove distrussero templi, biblioteche, postriboli, e persino linciarono intellettuali, specie donne, non allineati... Quasi dei casti e cristiani talebani del quinto secolo al servizio del nuovo ordine imperiale!

È interessante, per contrasto e saltando ad altra epoca, notare quanto sia stata, lungo tutto il ventesimo secolo, violenta e soprattutto universalizzata la critica alla morale cristiana ed al suo simbolo più irritante: la castità dei preti, dei religiosi e delle religiose.

D'altronde, lo scorso anno, un articolo de "Le Monde" mostrava quanto la castità religiosa e sacerdotale sia dappertutto in crisi nella Chiesa, al punto da renderla ormai, al parere di molti, statisticamente improponibile.

 

Da anni mi chiedo come si possa pensare un'evangelizzazione, diciamo semplicemente una missione cristiana, senza, anche psicologicamente, cadere nell'atteggiamento di superiorità culturale, d'assolutezza dogmatica e di monopolio della verità. Atteggiamenti questi che finiscono con il coniugarsi con una globalizzazione occidentalizzante dove "oggettivamente" anche la "guerra stellare" e la lotta mondiale al "terrorismo" diventano alleate del prevalere dell'asse giudeo-cristiano od occidental-sionista su tutte le altre culture e religioni necessariamente, di necessità storica e morale, subalterne e legittimamente subalternizzabili. Non sfiora troppe menti il pensiero che i terrorismi costituiscono delle reazioni veramente patologiche, tanto psicopatologiche che sociopatologiche, ed evidentemente non più tollerabili a quel punto, ad azioni altrettanto patologiche, che alcuni chiamano terrorismo di stato, ma da subirsi perché legali, ufficiali ed appunto di stato. Il terrorismo costituisce una reazione criminale a progetti di civiltà impegnati nell'imporre il loro programma, senza coerenza né etica né simbolica, come universalmente obbligatorio. Questa mancanza di coerenza, sia detto per inciso, potrebbe costituire un pregio, uno spiraglio per il pluralismo, ma spesso è solo lo spazio per praticare ciniche violenze e flagranti ingiustizie, curando i sensi di colpa collettivi con altisonanti dichiarazioni di principio e poetiche feste natalizie unite a dogmatiche profezie sui futuri e generalizzati paradisi generati spontaneamente e necessariamente dal sistema liberal-capitalista. 

Intanto però la democrazia resta troppo spesso privilegio d'una sola parte del mondo, poiché si preferisce lasciare sovente le genti in mano a feroci cani da guardia che seppure abbagliando contro l'Occidente e mordendosi gli uni gli altri, oppure leccando devoti la mano del padrone unico, tengono a bada i popoli rendendoli strumentali alla superiorità strategica ed economica nord-atlantica. Non è un segreto per nessuno che poi tutti questi guardiani, anche i più apparentemente antioccidentali, nascondono le ossa e vomitano il sangue delle loro vittime in larghe buche nelle banche del sistema finanziario occidentale.

Per moltissima gente per bene, d'ogni cultura e religione, non resta che svendere ai cani da guardia eredità e frutti d'oneste fatiche per andarsi ad ammassare nelle suburre delle capitali imperiali a rischio d'annegare lungo la traversata.

Scandalosa è la definizione di paese arabo o musulmano "moderato"... Si tratterebbe di quel paese che, senza nessun riferimento al valore della democrazia, si dimostri, almeno appunto moderatamente, succube della logica globale, economicamente e strategicamente asservita agli interessi del nord del mondo, e francamente recettivo nei confronti degli idoli pseudoculturali dominanti.

Ammetto che la mia analisi possa essere tacciata d'ingenua e semplicistica, paternalista ed occidentale anch'essa. Riconosco che possa apparire, da altri punti di vista, dubbia e addirittura falsa. Inoltre non vi è qui ragione per un più accurato argomentare. Queste considerazioni possono poi sembrare davvero estranee ad un discorso sulla castità... Ma è proprio ciò che intendo dire. La castità non ha senso, evangelicamente parlando, se priva d'impegno ed impatto politico; ed oggi dire politico è dire globale. Di questo era ben convinto il Mahatma Gandhi il quale riteneva la castità, fondata nell'assolutezza d'un voto, una delle colonne portanti della lotta non violenta per la Verità, cioè per la giustizia in tutta la sua estensione.

Noi uomini di Chiesa, che rischiamo talora di figurare piuttosto come dei maschi di Chiesa, ci siamo dovuti render conto che la castità evangelica, e più in generale la morale sessuale cristiana, non si possono imporre per decreto ad una società, anche quando culturalmente connotata in senso cristiano. È storia ormai che i popoli democratici hanno criticato la morale cristiana imposta e spesso l'hanno in vari modi osteggiata. Ciò non significherà che occorra facilmente rinunciare a testimoniare socialmente la propria visione di ciò che è autenticamente umano e che non si debba democraticamente proporla anche in modo esigente  o più spesso graduale e correttivo.

 

Quanto ai popoli musulmani, che sono quelli che conosco meno peggio, sono, sotto un certo aspetto, sovente ammirati ed attratti dal progetto cristiano riguardo alla persona nel suo corpo e nelle sue relazioni. Nel Corano e nella cultura da esso generata e ad esso connessa, Maria, Gesù e Giovanni costituiscono esempi positivi di perfetta castità consacrata. L'ideale monastico cristiano è come il simbolo per l'Islam d'un progetto di santità certamente lodevole. Ma a ciò si affianca una forte accusa di incoerenza rivolta ai cristiani i quali sbandierano grandi principi per dichiarare la loro superiorità, ma poi li negano statisticamente nella pratica, risultando spesso ben più incivili dei popoli da evangelizzare e da assoggettare. Qui bisognerebbe parlare anche della violenza dei cristiani e della non violenza del Vangelo... È un altro grande tema.

Per il grosso dei musulmani il grosso dei cristiani è fatto di bugiardi e d'ipocriti dalla doppia vita: bei principi sulle labbra e pessime azioni nelle membra. L'Islam ritiene d'essere la religione che riequilibra e realizza compiutamente l'umano, armonizzando realisticamente spiritualità e natura, in un progetto antropologico e sociale costruito sull'accettazione, e di conseguenza il convogliamento, degli istinti naturali, e ciò attraverso l'obbedienza ai dettami della legge rivelata, e con l'aiuto dell'educazione spirituale offerta dalla pratica dai dettami cultuali, come la preghiera ed il digiuno.

L'ideale dell'Islam è l'equilibrio. E l'equilibrio ideale è quello rappresentato dal Profeta Muhammad. Il che non impedisce di sviluppare poi, nella vita individuale religiosa e morale, gli aspetti più spirituali ed alti di quell'esempio perfetto. Esso è perfetto nell'obbedienza a Dio nella situazione vissuta e non in una perfezione a priori. Alla persona di Gesù, così come rappresentata nel nobile Corano, si riconosce d'essere modello, a volte il modello, della santità, ma allora si tenderà a distinguere tra santità formale, categoriale, e perfezione d'obbedienza situazionale, in definitiva la più alta, rappresentata dal Profeta Arabo.

Che poi l'Islam di oggi si trovi a disagio e in difficoltà ad adattare ed aggiornare l'interpretazione del quadro di riferimento ideale tradizionale coranico e muhammadico di fronte alle sfide rappresentate dall'evoluzione moderna dell'umano, soprattutto riguardo al significato della persona-individuo, tanto uomo che donna, è un fatto. Che le proposte antropologiche, veicolate dalla globalizzazione culturale e dall'evangelizzazione, abbiano un impatto reale sull'immaginario, il pensiero, le scelte di molti musulmani e delle società musulmane è un altro fatto. Che le contraddizioni inerenti al progetto islamico stesso, così come concretamente sviluppatosi nella storia, siano dolorosamente avvertite, tanto dalle elite come dalle masse musulmane, è ancora un fatto, anche dimostrato dai nervosi atteggiamenti di rimozione storica, negazionismo ed apologetica aggressiva d'una buona parte della prosa islamica più diffusa. 

 

Un solo esempio per intenderci: il valore del matrimonio monogamico è riconosciuto da una larga maggioranza di musulmani non solo tra i più istruiti ed urbanizzati. Il riferimento simbolico muhammadico è presente in una prima fase molto nobile, monogamica e felice della vita matrimoniale del Profeta alla Mecca. Tuttavia è evidente, nell'attuale larga critica musulmana alla poligamia, l'influsso della visione antropologica moderna a sfondo cristiano. Ciò che è però rifiutato dai musulmani è che una società così contraddittoria e, a loro parere, così spesso disumana, ipocrita e fallimentare sul piano familiare come quella occidentale, possa arrogarsi il diritto di giudicare decadute ed inaccettabili le istituzioni della legge islamica in fatto di poligamia, quando queste, ancora una volta dal punto di vista islamico, sono ritenute in grado di razionalizzare ed umanizzare delle situazioni sociali e personali considerate altrimenti irrisolvibili e comunque di convogliare un desiderio sessuale naturale ed un bisogno affettivo altrimenti ben più socialmente e psicologicamente pericolosi ed eversivi.

È come se, islamicamente, si coniugassero nel Profeta due ideali che sembrano opporsi solo se osservati dal di fuori di quel mondo simbolico: da un lato vi è l'aprire la strada ad una forte elevazione spirituale e morale dove tanto più tanto meglio, e, d'altro canto, assieme a ciò si mostra un ideale di controllo individuale e sociale dell'uomo, inteso come altrimenti assoggettato dalla natura agli istinti.

 

Mi mette a disagio quell'uso, anche tradizionalmente cristiano, di dover dimostrare la propria verità dimostrando l'insufficenza  e l'incoerenza dei progetti religiosi, spirituali e morali altrui. Certo, ma è reciproco, attraverso la relazione ed il confronto, si può fare l'esperienza d'una più profonda comprensione dei valori dell'educazione ricevuta e degli ideali proposti dal gruppo religioso a cui si appartiene. È anche vero che le critiche che ci sono rivolte dall'esterno ci aiutano, vale per tutti, a ripensare le nostre gerarchie di valori e ad evolvere in modi che generalmente speriamo positivi.

Preferisco però pensare piuttosto ad approcci pluralistici, dove uno sguardo di simpatia rivolto all'altro permette di cogliere l'equilibrio di valori rappresentato da quel particolare complesso religioso e civile, e nello stesso istante, gentilmente, ritiene di poter augurarne, favorirne, intravederne l'evoluzione più felice, pensata, perché no, anche sulla base della propria esperienza, alla quale si resta dinamicamente fedeli. Infatti la fedeltà resta per tutti un grande valore, sicché evolvere in fedeltà sembrerebbe essere un ideale comune ed a tutti augurabile. Non è la fedeltà quella che ci impedirà di aprirci alla ricchezza dell'altrui esperienza e di goderne; è invece la fedeltà e l'autocoscienza ciò che ci impedirà d'incontrare l'altro in una condizione di subalternità, angoscia e, in definitiva, aggressività difensiva.

Che poi la fedeltà stessa ci spinga talora a scomode scelte in coscienza, a bruschi passaggi e dolorose critiche... anche questo fa parte della storia spirituale sia dei cristiani come dei musulmani. Alla fine la fedeltà è a Dio ed alla coscienza e non ai sistemi, anche se sempre accade all'interno d'un mondo particolare di significati e valori.

Dovrebbe essere possibile immaginare una complessa e multiforme democrazia globale dove diversi sistemi di riferimento simbolico e religioso, più o meno prevalenti e determinanti, qui o lì, per aree storico geografiche, svolgano un ruolo di poli ispiratori e ideali, non contrapponendosi ad altri in una logica di concorrenza, ma bensì traendo, da diversi tesori, molteplici ricchezze per il bene comune. Salvaguardare le particolarità e le originalità sarà un bisogno riconosciuto autentico per sé stessi e per tutti. Questo richiede che di conseguenza si faccia pragmaticamente un largo spazio alla tolleranza. E sarà tutta diversa dall'accondiscendente paternalismo colonialista. Sarà invece tolleranza intesa come umiltà intellettuale, spazio al futuro, convinzione non violenta che solo il dialogo potrà portare a più grandi e profonde armonie. Mettere assieme fedeltà e tolleranza, ecco un bell'esercizio per l'anima individuale come per quella collettiva! Attenzione, poiché il "potere" può tendere a fare della fedeltà un fatto privato e della tolleranza uno strumento di allargamento e mantenimento del consenso.

 

Ma arriviamo finalmente al tema della castità evangelica. Come discepoli di Gesù, ci sembra di poterla leggere iscritta già nella natura, fin dall'inizio. È ciò che si chiama nella teologia morale tradizionale la legge naturale, sulla quale si costruisce un'idea d'umanesimo morale, tendenzialmente almeno, universale e perenne. Ci pare di riconoscerla bella e velata, annunciata e sperata nei miti, nei testi sacri, nei riti e negli esempi d'antiche ed altre tradizioni. La riconosciamo però difficile da pensare prima ancora che da vivere e ci troviamo sovente dolorosamente umiliati dal suo superarci talmente, sia individualmente che ecclesialmente. 

 

La castità è la forma, la celebrazione e la festa, sessuale, affettiva, fisica e psicologica della fede spirituale: è un aspetto chiave del danzare la grazia della fede, è mistica del corpo. Essa è determinante per la gloria, la letizia del corpo individuale, sociale e cosmico. Riguarda la realizzazione finale del Cosmo come corpo del Verbo, del mistero della Chiesa come intenzione della Creazione e dell'aspirazione che abiti Iddio infine pienamente in tutto.

 

La castità evangelica è consustanziale alla fede evangelica. Solo lì è concepibile; dunque solo come grazia è realizzabile. Sempre diversa e sempre fedele a sé stessa, come diverse eppure confluenti sono le storie di fede di ciascuno dei discepoli. Ripeto, essa è in definitiva la forma giusta, adatta, della fede di Gesù di Nazaret e della fede in Gesù morto e risorto, lo stesso ed unico Cristo: Dio che s'unisce l'uomo nell'estasi amorosa paradisiaca.

In fondo è semplice; castità è celebrare nel corpo tutto e solo ciò che l'anima spirituale riconosce vero nella visione di fede, istante per istante, fedeltà d'ogni istante.

Non c'è disprezzo né schifo nei confronti delle molte e difficili tappe d'una lunga ed incerta evoluzione, che osserviamo presente sincronicamente e descritta nelle diverse e contemporanee fasi del pluralistico e contraddittorio panorama comportamentale globale.

Si, c'è dolore pungente e contrizione per tanto tradimento, vigliaccheria, cecità, bassezza, possesso, menzogna, violenza, strumentalizzazione, mercificazione, narcisismo deviante ed esibizionista, vanità squalificante ed avvilente, superficialità e noia mortali. In me stesso li soffro come pure nel nostro corpo comune familiare, sociale ed ecclesiale.

 

Consustanzialità della castità con la fede: significa accogliere nel corpo relazionale l'azione del Verbo di Dio creatore, tonificante, artista, fertile, luminoso, armonico... Quanti aggettivi occorrerebbero per dire tutta la sua ricchezza?!

Nel sociale si parlerà di trasparenza, rettitudine, solidarietà...

Nell'ambiente si parlerà di rispetto, considerazione, umiltà, delicatezza...

 

Fede cristiana: sarà centrata nella persona di Gesù e nel suo itinerario. Intanto non sarà solo Gesù solo. Sarà Gesù e la Madre, Gesù e Giuseppe, Gesù ed il Padre, Gesù e Giovanni, Gesù e il deserto, Gesù e Maddalena, Gesù e Pietro, Gesù e la Samaritana, Gesù e i piccoli, Gesù e le folle, Gesù e i sacerdoti, Gesù e Giuda... Gesù e l'uomo crocefisso punito assieme a lui.

L'identità maschile del Signore non scandalizza più il mio femminismo politico ed ecclesiale, perché essa è talmente sintetica dei due poli dell'universo, da rappresentare troppo bene quella sponsale unione individuale degli opposti, alla quale tutti, uomini e donne, aspiriamo. E poi egli è così innamorato del principio femminile, così ansioso di donarsi a questa donna, questa signora e regina che è il Mondo, che è la Persona, Altro di Dio ed Altro da Dio, da far arrossire di gelosia ed invidia gli angeli più luminosi.

 

Consustanzialità della castità con la fede, significa desiderare una conformazione, fin nel corpo e negli affetti, con Cristo e con il Cristo-Chiesa.

Maria, la Vergine Madre, diventa una profonda ed efficace realtà simbolica in grado di rappresentare questo divino progetto antropologico. 

Vergine: sarà nome del desiderio di offrirsi in un solo gesto eterno; sarà attesa, atto e gloria d'un unico dono, d'un voto, irripetibile, senza ritorno, definitivo, benché diffuso, espresso e celebrato nel donarsi quotidiano. 

 

Madre: che dire? Come potrà un povero monaco esprimere il miracolo della sua maternità, e della maternità d'una comunità d'eunuchi per il Regno dei Cieli, della maternità d'una comunione di vita spirituale di uomini e donne votati all'ospitalità? Le madri sogliono dire che nessuno può sapere cosa sia la maternità se non l'ha provata. Hanno ragione. I monaci vogliono dire che nessuno ha idea di cosa sia la maternità spirituale senza averla sperimentata. Proprio come la fede: chi mai la descriverà? Chi potrà dimostrarla? Indicarla, si; mostrarla, forse; annunciarla. Ma dimostrare? Solo gli amanti s'intendono!

 

Consustanzialità della castità con la fede del Cristo dell'orto, dell'ansia, dell'angoscia, della tortura, della sentenza di morte per alto tradimento religioso e politico, del Golgota, dell'urlo alla fine dell'agonia d'un criminale crocefisso.

Chi non sentisse in sé, nel suo corpo, una disponibilità, un desiderio di sofferenza per amore, non si faccia avanti. Non venga ad ingrossare la truppa dei profittatori. Resti pure nella logica piccolo borghese e tardo sindacale dei suoi molti diritti. All'accusa di masochismo siamo abituati, anzi concediamo di dover sempre purificare una spinta alla sofferenza ed al sacrificio, un desiderio di martirio troppo a rischio d'essere in fondo desiderio esibizionista d'onnipotenza. Gesù stesso è diviso tra il desiderio che il calice della sofferenza passi e quello finalmente di berlo. Smettiamola di prenderci in giro. Senza sacrificio, senza generosa disponibilità a soffrire, per vincere la morte nel morire d'amore d'ogni giorno, siamo già oggi tutti sconfitti. Ida Magli, alla fine d'un libro geniale e terribile sulla storia della donne nella Chiesa, riconosce che, senza sacrificio, l'umanità è perduta... poi dice che le donne sono stufe d'essere vittime istituzionali, vestali della sofferenza, e che le persone che se la sentono d'assumersi questo ruolo si facciano avanti, stavolta liberamente, per scelta, non per condanna.

 

Consustanzialità della castità alla fede in Gesù risorto domenica mattina. Lacrime d'un peccatore perdonato, casta densità d'un corpo in estasi, passato per il fuoco del sacrificio, superstite del piombo mortale precipitare e già nell'orizzonte luminoso della trasformazione finale. La nostra forma definitiva attrae, fin dall'origine, per tappe, l'evoluzione individuale e collettiva. Siamo tirati, attirati, verso noi stessi ormai perfetti per grazia, per dono, per favore. Te ne puoi accorgere incrociando discreto lo sguardo d'un fratello o d'una sorella di ritorno da un giorno di deserto, o alla fine della Liturgia, o dopo una grande prova, o lungo un breve colloquio a parlare di Dio, o in un attimo di denso silenzio... quella luce, quella trasparenza, quella bellezza, quella semplice fierezza, quel senso d'accompiuto, quell'elevazione dell'animo, libero, slegato, gratuitamente unito... si, è presente lui, davvero: Cristo nel suo corpo risorto.

 

Se la castità evangelica è consustanziale alla fede,  allora il dubbio sul suo significato assomiglierà al dubbio di fede. Non a caso l'adolescenza è anche età del dubbio di fede e della messa in discussione della legge morale percepita come autoritaria e non dimostrata.

Nessuno potrà rispondere al tuo posto alla domanda del perché dormi da solo in pieno inverno, e perché non vuoi far uso della realtà del tuo corpo, così potente ed anche anatomicamente pressante. Perché non esprimere anche genitalmente amore, tenerezza ed unione spirituale? Perché rinunciare a moglie e figli? Domanda d'ogni giorno, con tante rispostine ragionevoli, ma tutte radicalmente insufficienti di fronte alla voragine del bisogno.

Anche la fede è così, tante buone ragioni per credere, tutte insufficienti a porre l'atto di fede come atto costante, istantaneo e stabile! E poi c'è quel buco nero del dubbio, di scandalo di fronte al dolore, di cielo plumbeo, chiuso come un tetto di cemento armato, e poi le religioni talmente avariate e contraddittorie, concorrenti e perdenti, e così infedeli noi i cosiddetti uomini di fede!

Più in profondo c'è quella leggerezza attraente e sacra nella sua radicale diversità. C'è quel non poter oggettivare neanche concettualmente l'incontro con l'Altro trascendente. È come se fossi tu solo nel nulla a decidere d'aprirti, d'andar oltre, di creare, di fidarti della relazione, solo sperata, mai assicurata, con un Altro che s'intravede nell'intravedere, s'accoglie nel donare, si dimostra in concomitanza con il nostro esporci, e si comprende fedele nell'accettare nostro, nel nostro porre, l'esigenza assoluta di fedeltà. Era lui a prendere l'iniziativa, era lui ad attirare, a pronunciare per primo il voto, ma in modo da rendere te capace d'iniziativa, di decisione, di seduzione, di voto.

Benedetta sofferenza del corpo che sempre mi riporti alla radice dell'anima!

Benedetta angoscia affettiva che sempre mi sospingi nel deserto in cerca dell'Amato!

Benedetto atroce dubbio che strappi le maschere al Volto più bello!

 

La castità, come la fede, ha bisogno d'iniziazione, e l'iniziazione è legata all'uscita dall'infanzia verso l'adolescenza. 

I sacramenti dell'iniziazione cristiana andranno attualizzati, realizzati nei loro doni ed effetti spirituali, psicologici e fisici.

Bisognerà interiorizzare il lavacro e la rinascita battesimale, sperimentare la forza dello Spirito di Dio, gustare il nutrimento della mensa celeste, la cena d'addio di Gesù che si dona. Occorre, nell'iniziazione, prendere coscienza del proprio peccato e della mortale passione di peccato, e poi accettare d'essere trasformati dalla grazia, umilmente, in una nuova creatura. Tutto ciò non può essere comunicato solo attraverso la tradizione catechetica. Ma sarà annunciato e realizzato nell'iniziazione pratica alla viva tradizione mistica, spirituale e liturgica, tanto personale come comunitaria. 

Si sta parlando qui della persona nel suo esser corpo, anzi nel suo adolescenziale diventare pienamente corpo per l'amore, per la relazione. Perciò occorre una precoce ma non artificiosa introduzione nella dimensione simbolica spirituale dell'esistenza, insieme con una nonviolenta educazione all'esercizio dell'ascesi e della libertà dall'automatismo delle pulsioni. Senza gioia non si può crescere, senza danza non s'impara a muoversi nel proprio corpo che esplode da tutte le parti! Non può bastare il pur ottimo sport, e neppure basta il pur necessarissimo contatto con la natura. Per il discernimento, per le scelte, per realizzare precocemente una vocazione al Vangelo, non può mancare una gioiosa e profonda introduzione pratica alla vita mistica. Anzi, solo se questa introduzione c'è già stata in realtà nell'infanzia, potrà costituire efficacemente luce nel decennale itinerario adolescenziale. Ripenso qui alla relazione di Gesù coi bambini ed alla suo appello al giovane ricco.

 

Ogni religione prevede degli itinerari d'iniziazione adolescenziale. Spesso si punta tutto sull'ascesi dell'autocontrollo. È così che si cade nella sindrome della forzatura autoritaria colpevolizzante, rifiutata o subita, più o meno, secondo i singoli individui e i contesti familiari e sociali. È così che si costruisce una morale ufficiale alla quale si contrappone l'iniziazione clandestina, piacevole perché liberante, ai comportamenti pirati.

 

D'altronde la mistica non s'impone. Anche la comunità cristiana deve arrendersi volentieri alla gradualità, all'impossibilità di convincere subito tutti, ad una saggia tolleranza tanto nei contesti giovanili che altrove.

Ciò implica innanzi tutto la pratica della carità, che eleva senza giudicare; carità praticata verso tutte quelle persone che vivono in una condizione di grave sofferenza morale. Impariamo da Gesù come guardare le persone che vivono dei comportamenti sessuali che noi riteniamo per noi stessi ed oggettivamente errati e disumanizzanti.

 

La comunità cristiana sarà tuttavia molto seria nel chiamare con il loro nome le esigenze della fede senza paura d'essere impopolare, e sarà esplicita nel proporre l'ascesi come via di crescita nella libertà.

La castità, come la fede, sarà sentita allora come un privilegio, un immenso dono, da proteggere e valorizzare, e a cui si corrisponde nell'impegno di fedeltà. L'evangelico non giudicare il prossimo non significa non poter maturare la gioia della coscienza del prezioso dono della fede, vissuto profondamente nel corpo individuale, familiare e sociale. Davvero armonizzare fedeltà e tolleranza, ecco la sfida del nostro tempo plurale!

 

È così che si individuerà, più o meno ed in forme diverse secondo i contesti, una comunità di discepoli di Gesù di fatto minoritaria, in un certo senso elitaria, diversa, separata suo malgrado dal "mondo", segnata da uno stile ed una pratica comportamentale altra da quelle accettate, pubblicizzate, stimolate e commercializzate dalla società globale supermercato. E ciò non solo riguardo all'esercizio della sessualità, ma anche nell'uso dei beni e del tempo, nell'impegno politico e nello stile non settario di vita associata. Una setta di non settari, ecco il motto! La comunità coscientemente eviterà, ripetiamolo ancora, il manifestarsi d'ogni atteggiamento esclusivo e svilupperà dei parametri di discernimento della crescita spirituale delle persone alternativi alle logiche di autoaffermazione ed autorealizzazione dominanti.

 

Negli antichi deserti l'"abba" più ascoltato era l'anziano più interiormente libero ed aperto, più dimentico di sé e più autocosciente, più evidentemente unito a Dio, più umile nella tolleranza e nell'odio al potere e più fedele nell'ascesi al sottomettere, piuttosto al convogliare, il proprio corpo nel fiume della fede, e con tanta più armonia e gaudio tanto meglio.

La comunità  nel deserto non fugge in esso per tirarsi fuori dal mondo, poiché ciò sarebbe il contrario dell'opera di salvezza basata sull'incarnazione del Verbo di Dio nel e per il nostro mondo. Essa sta nel deserto per tirare, per attrarre, il mondo fuori dalla sua prigione d'istinti idolatrati, verso più larghi panorami e più essenziali prospettive d'armonia e di leggerezza. 

 

La fedeltà alle esigenze della fede cristiana incarnata non c'impedirà di stimare cordialmente i grandi beni testimoniati, proprio in questo stesso ambito di discorso da altre tradizioni religiose e culturali.

Fedele alla verità del suo sentiero, il monaco, ma in generale il discepolo di Gesù, sarà in grado di riconoscere il valore del linguaggio sessuale umano anche quando è espresso in modi che egli ritiene inadeguati per sé e per chi è stato chiamato alla fede evangelica; ed apprezzerà senza gelosia quanto di buono vi è nella capacità altrui d'essere spontaneo nell'effimero, naturalmente aperto al godere, libero e profondo nell'esprimere anche sessualmente la relazionalità umana. 

Tutto ciò è vero, e nel grado più alto, nel matrimonio sacramento e nel matrimonio naturale, e resta vero, benché afflitto da gravi carenze, anche in altri livelli ed altre forme di relazioni umane, imperfettamente ma realmente illuminate da raggi della primigenia volontà del Creatore. È come se i comportamenti che noi talvolta riteniamo inadatti alla nostra vocazione cristiana e poi eventualmente monastica, avessero tuttavia una parola positiva da dire anche per noi e correttiva di possibili deviazioni della nostra stessa scelta di vita.

L'umile fedeltà del discepolo di Gesù non è sempre innanzitutto polemica verso un mondo giudicato depravato, ma è anche testimone d'un'esigenza tra altre; e solo un lunghissimo e plurale itinerario della comunità umana potrà portare all'armonia finale. Già intravista, essa è già amata. 

Dal mio posto, stando fedelmente al mio posto, posso vedere beni presenti in altri e testimoniati da altri i quali hanno un altro posto ed in altro posto stanno, creando così assieme, da poli diversi, larghi e benefici campi magnetici che realizzano fin d'ora una perfettibile e dinamica armonia tutta volta ad un futuro migliore.

 

Ciò è vero innanzitutto nella benefica dialettica all'interno della Chiesa, della comunità cristiana locale, tra vita consacrata maschile e femminile d'un lato e vita matrimoniale sacramentale dall'altro. Infatti il consacrato è testimone convincente di quella sponsalità spirituale che anche gli sposi vogliono incarnare nella relazione naturale, benedetta e trasfigurata dal sacramento matrimoniale; e questi a loro volta offrono ai consacrati l'immagine analogante ed originale, densa e concreta, della relazione sponsale perfetta, e perfettamente adatta a dire la somiglianza con Dio stesso.

 

Un terzo polo nella dialettica ecclesiale relazionale sarà quello dei giovani e degli adulti in fase d'iniziazione alla vita evangelica, e comunque a diverso titolo impegnati in un discernimento sul loro progetto di vita, cioè sullo stato di vita che desidera per loro il Signore e che essi desiderano nel Signore.

Vi è poi la condizione di chi, nella sofferenza e con sofferenza, non è in condizione di far progetti, e testimonia, nella comunità, del valore sacrificale degli ancora inaccompiuti dolori di Cristo, ed è riconosciuto dai fratelli e dalle sorelle, con attivi rispetto e devozione, come icona dell'Amato e stessissimo corpo del Salvatore.

 

L'ascesi, fondata in una crescita di vita mistica, favorita ed alimentata dalla pratica comunitaria liturgica, sarà realistica scuola di libertà che prelude alla scelta, non obbligata e dunque generosa, dello stato di vita: cioè principalmente tra fedeltà d'amore matrimoniale o amore fedele nel voto di castità. L'ascesi stessa aiuterà, esprimerà e sosterrà tale fedeltà all'amore nel durare del tempo. 

In un certo senso l'iniziazione cristiana comporta un voto di castità, a monte degli impegni matrimoniale o monastico, tuttavia già radicale, e che permette di sperimentare la realtà degli effetti della fede nella vita del corpo e consente a questo di conformarsi alla vita di fede, coinvolgendo così tutta l'energia sessuale ed affettiva nell'unione con Dio e nella comunione con la comunità umana, nella logica del dono gratuito e spirituale di sé, inteso come fine ultimo della persona. Da questa libertà, da riconquistarsi e da ricevere dall'Alto, quotidianamente, ad ogni istante, nasce la possibilità spirituale, psicologica e fisica di votare se stessi interamente, verginalmente, per sempre, all'Altro della fede, nell'immagine dell'amore divino che è la famiglia o nella nudità della solitudine essenziale con Dio solo che è la via monastica.

Ogni pensiero o ricordo sviante, ogni immagine visiva o mentale disequilibrante e portatrice di turbamento, ogni tentazione contro la fedeltà andrà, senza violenza ma con coraggio, accantonata; senza paura, senza inconscio rimuovere e sopprimere, senza scandalizzarsi, che è segno di superbia e di gnostico e narcisista desiderio di perfezione; perfino il resistere alla compulsività degli sguardi e delle attitudini, superandole di slancio in un rinnovato atto di puro amore, diventa occasione per rinnovare il proprio patto, ed il voto d'ogni istante, ad ogni istante.

Bisogna anche sapere che con i cambiamenti del proprio corpo che invecchia e matura, attratto dalla sua forma finale, il Cristo risorto, e per effetto della storia che attorno a noi si sviluppa, si dovranno affrontare lungo la vita diverse adolescenze, non meno impegnative e spesso più dolorose e difficili di quella giovanile, ma tutte foriere di quell'ultimo passaggio all'infinito, aspro e bello, verso il quale, fin dalla fine dell'infanzia, s'era attratti.

 

La nostra vita monastica nel deserto, di uomini e donne votati, nella liturgia, il lavoro e l'ospitalità, alla comunione la più radicale con Dio, sia come persone che come piccola Chiesa, è come sospesa tra l'ideale eremitico testimoniato dalle antiche grotte della valle, l'impegno di carità e servizio dei fratelli e delle sorelle consacrati evangelicamente in città e, seppure in modo sublimato e simbolico cioè appunto monastico, la tenerezza, la consolazione ed il piacere dell'unione creatrice nella sponsalità familiare. 

In effetti, senza un'esperienza eremitica, che dimostra all'anima la verità di quanto essa crede, la densità originaria e finale della dimensione spirituale del mondo, la solidarietà impalpabile e reale con l'umanità e gli angeli e l'efficacità istantanea della comunione in Dio che sostiene e guida invisibile lo svilupparsi del tempo, sarebbe del tutto impossibile, castrante e stupido investire tutta la propria energia vitale in un'ardua ed ingiustificata operazione di perenne sublimazione del visibile verso l'aldilà delle apparenze, del sensibile verso l'oltre del tatto e delle parole verso un silenzio che tutto riassume. Se Dio non basta nulla mi basta!

Spesso le grotte della montagna si rianimano della presenza d'un monaco o d'una monaca che riprende radicalmente la via del solo a solo con l'Amato. Forse un giorno, anche qui, alcuni tra noi, efficacemente in nome di tutti, riattualizzeranno stabilmente questo polo essenziale alla vita della comunità ecclesiale ed umana che è quello eremitico.

 

Immensa è la nostra stima per i religiosi e le religiose che hanno scelto una consacrazione all'amore di Dio e dei fratelli nel mondo, contemplativi per le strade e nelle metropolitane, fraterne comunità di vita evangelica, efficaci organizzazioni di servizio all'uomo. Il nostro impegno monastico d'ospitalità, di dialogo, di lavoro, non differisce dal loro nell'essenziale, ma nello stile, il luogo, le tendenze prioritarie.

Così pure conosciamo ed apprezziamo moltissimo la vita comunitaria dei soli religiosi e delle sole religiose. Essa è testimone della verità del voler essere Iddio, e del volerlo noi porre, come l'Altro fontale nella vita di consacrazione cristiana. L'amicizia e la fraternità diventano allora il frutto dolcissimo di tale insostituita ed irrappresentata unione originaria.

Indicibile è infine la nostra considerazione e gratitudine per la vocazione dei fratelli e delle sorelle consacrati castamente nella fertilità del matrimonio. La possibilità e l'importanza d'esser casti nel godimento del piacere sessuale tra gli sposi, dimostra pure ed illustra la possibilità e l'importanza d'esser casti nell'ebbrezza sensibile dell'esperienza mistica.

Il nostro essere in comunità assieme monaci e monache, seppure per umiltà e coerenza separati in abitazioni diverse, ed in un contesto molto dinamizzato dalla larga pratica dell'ospitalità, ci richiama, più di altri, alla responsabilità di rispecchiare ecclesialmente e socialmente la sponsalità teologica ricevuta in dono al fonte battesimale, perché sia in fondo sottesa ad ogni spirituale umana relazione.

Ci sembra che la condizione d'innamoramento sia la più ovvia e la più consequenziale all'amore di Dio diffuso dallo Spirito, per effetto della resurrezione di Gesù, nei nostri cuori. Sarà un innamoramento diffuso, non fissato, non ossessivo o possessivo, ma aperto, largo, trascendente l'individuo e tuttavia ancora personale, poiché il Dio persona nelle persone si trasfigura e si offre allo sguardo innamorato. La nostra è vocazione a correre il rischio della tenerezza, sempre tesa ad esprimere la radicalità del voto e dell'impegno monastico, mai ad alleviarla od a sostituirla. Vogliamo dire con la nostra vita che l'altro non rappresenta un pericolo per il nostro voto di castità, ma che è piuttosto il rifiuto e la paura dell'altro ciò che costituisce un ostacolo alla realizzazione dell'ideale cristiano. 

L'amicizia con persone sposate, famiglie di discepoli di Gesù, per le quali la nostra vocazione ed il nostro carisma sono significativi e come paralleli ai loro, ci incoraggia a realizzare e perfezionare una forma di vita religiosa alla quale la Chiesa, madre saggia e prudente, guarda con speranza ed apprensione. Altre comunità nel mondo, e sulla base d'antiche e tradizionali esperienze, percorrono cammini simili.

Vi sono anche comunità di vita evangelica nelle quali, secondo svariate formule, convivono famiglie e consacrati. Non è questo il nostro caso, la nostra via o progetto. Per noi è chiarissimo il riferimento all'ideale monastico nella sua originale forma orientale, marcata dal simbolo del deserto e dall'esperienza eremitica. Ciò è per noi così vero che non abbiamo camere da ospiti per famiglie, e che in tal modo proponiamo un'esperienza del nostro modo di vivere anche alle persone di passaggio. Ma è pur tuttavia vero che non ci sembra più impossibile che alcune famiglie possano desiderare di stabilirsi in una comunione concreta e stabile con la comunità monastica, sia semplicemente condividendone la spiritualità e soprattutto l'impegno per l'amicizia con l'Islam, sia stabilendosi eventualmente nel paese più vicino o formando un villaggio non troppo lontano dal monastero ed inserito nel quadro organizzativo più largo dell'attività d'ospitalità e di lavoro. Effettivamente un seme è già gettato con quei compagni e compagne  sposati i quali svolgono la loro attività professionale e lavorativa nel quadro del monastero e ne condividono con convinzione scelte e priorità. Il fatto che siano poi essi concretamente molto impegnati nella vita parrocchiale e sociale locale, mostra che la relazione con il monastero è sana e non equivoca.

 

Nel nostro contesto caratterizzato dalla relazione islamo-cristiana, seppur iscritto nella grande dialettica globale, sentiamo che la nostra forma di vita monastica costituisce una testimonianza gradita ed apprezzata. Non pensiamo al senso del nostro stare qui nel quadro d'una statica complementarietà funzionale; così come per noi il monachesimo non è archeologia e folclore. Crediamo, in nome della Chiesa e con essa, di voler offrire un dono particolare alla comunità islamica che già ci conosce ed ama. Il dono è consustanziale alla nostra fede in Gesù che l'Islam non può interamente condividere, ma che largamente stima e che già contiene, a ben guardare, in un misterioso annuncio teso al compimento sopratemporale della storia. Tanto che Gesù stesso, che per il credo musulmano si trova ora con Maria, entrambe col corpo, su un bellissimo poggio del Paradiso, è atteso dai musulmani perché torni infine testimone e martire della giustizia. Per i musulmani devoti e spirituali, specie per i sufi, il modello di Gesù e di Maria, l'abbiamo già detto, è importante e significativo. Essi sono modello di perfetta castità come pure d'ascesi e di prossimità con Dio, dunque di santità. Anche l'elemento della sponsalità mistica fa parte della ricchezza spirituale tradizionale dell'Islam.

Tuttavia, per la legge islamica e per il dogma dell'Islam, esistono delle difficoltà maggiori a condividere  l'essenziale della nostra fede e della nostra scelta monastica. Ciò è da porsi in relazione con il caratteristico costituire l'Islam una comunità polemica, fronte di rivendicazione di naturale giustizia, e tuttavia in crisi essa stessa, desiderosa di autosuperarsi, senza tuttavia perdere di identità, senza negare il suo ruolo fondamentale di rappello geloso del monoteismo originale e della creaturalità radicale del mondo. 

L'Islam è lettera e superamento della lettera. Una comunità cristiana minoritaria in terra oramai musulmana e votata al bene dell'Islam, trova nel cuore, nel nucleo più puro, della propria fede, riespresso in categorie, concetti ed immagini il più vicini possibile a quelli musulmani, la propria identità particolare e la propria vocazione.

La grande letteratura islamica d'amore sufi diventa sovente parola per esprimere anche la nostra vocazione alla castità, in quanto via di realizzazione della sponsalità della creatura nella relazione con l'Unico. A noi, per grazia, sta di sondare radicalmente un aspetto essenziale di tale relazione, giacché possiamo dirla e viverla compiutamente in Gesù; tuttavia non per rinchiuderci nel ghetto d'un privilegio, ma per esercitare nell'ospitalità la gioia d'una comunione tendenzialmente infinita.

 

La nostra coscienza d'esser discepoli di Gesù è testimone della dinamica definitività di ciò che crediamo e che ci sforziamo di vivere. Questo implica pure un desiderio di cogliere presso altrui, e per noi sono soprattutto i musulmani, dei doni dinamicamente orientati ad una perfezione che sempre tutti ci trascende. Questo ci rende amichevolmente, addirittura sponsalmente, preziosi gli uni agli occhi degli altri. Il dialogo interreligioso deve essere un fatto di mistica comunione e di umile vicinato, nello stile di Nazaret, ben prima di arrivare ai bagni di folla ed a congressi e vertici evidentemente troppo strumentali alle politiche del momento ed esposti al rischio del mero desiderio di visibilità diplomatica. Anche quando una sincera volontà di salvaguardare la pace si esprime in grandi operazioni interreligiose e massmediali, occorre tenere a mente che senza disgelo teologico ed ermeneutico, sarà difficile prosciugare e risanare lo stagno interreligioso ed evitare un sempre più drammatico affrontarsi delle civiltà.

 

A motivo della spaventosa superiorità strategica e tecnologica, ma anche della complessità istituzionale ed accumulo di cultura dell'Occidente, sarà dovere delle Chiese, ed innanzitutto di quelle occidentali, di praticare un'autocritica, non ossessiva ma efficace, non autopunitiva ed ipercolpevolizzata, ma sinceramente cosciente delle proprie responsabilità storiche. Non si può reagire con psicologia di vittime quando si è invece dalla parte degli oppressori. Sono certo da evitare acritici atteggiamenti del tipo "da noi tutto sbagliato e presso altrui tutto giusto", poiché ciò finirebbe con il marginalizzare totalmente il peso dei Cristiani in ambito politico. Si tratta a mio parere, proprio a causa dell'accesso che si dovrebbe avere ad una visione spirituale del mondo e del futuro, d'essere capaci di profezia, di mostrare vie, più efficaci e meno brutalizzanti, d'uscita dalle crisi, dalle guerre e dalle tensioni, anche le più incancrenite come quelle palestinesi o afgane.

 

Per noi qui a Deir Mar Musa è stato importante sentire che, nella crisi mondiale attuale, le nostre reazioni primarie e viscerali fossero dolorosamente solidali con l'insieme del corpo ferito ed umiliato dell'Islam. Ciò non ci ha impedito di sentire intimamente la fitta dell'universale umano dolore per la piaga che gli atti di folle terrorismo hanno brutalmente aperta e peggiorata.

 

Eravamo più che addolorati per l'orribile condizione della Terra Santa prima dell'undici settembre, e lo siamo dopo, se possibile, di più. Riassuntiva e tragicamente espressiva di tutta la problematica interreligiosa contemporanea, e non solo tra i figli d'Abramo, è la questione ierosolimitana: palestinese ed israeliana, islamica, ebraica e cristiana, araba ed occidentale, asiatica, mediterranea ed universale,  essa resta al cuore della nostra preoccupazione e della nostra intercessione per la giustizia, il perdono e la riconciliazione.

 

 A Deir Mar Musa ci pare, in conclusione, che il dono esigente, della nostra vocazione comunitaria di monaci e monache, sia adatto ed adeguato alla nostra missione di favorire la comunione interreligiosa.

 

A partire dalla nostra piccola Chiesa nel deserto ci pare di poter efficacemente annunciare come salvifica la via della relazione dialogica agapica, d'amore, con l'alterità, in vista della comunione finale con Dio, l'amato ed amante "Tutt'Altro".

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