Il mio giro d'Italia

A febbraio sono stato in Italia per una serie di incontri. In un attimo di riposo presso la redazione di Popoli, ripenso all'incontro al Collegio universitario Paolo VI, a Milano, con Benaissa, immigrato algerino che ci ha parlato della sua esperienza. Ha espresso il desiderio di comunicare ai figli le tradizioni familiari senza tuttavia impedir loro d'essere lealmente italiani. Ha descritto l'itinerario di chi corre ogni rischio pur di lasciarsi alle spalle l'insopportabile e approdare ai paradisi del Nord. Ne ho ammirato il pacifico buon senso, il realismo di fronte alle derive violente e di vuoto dei giovani, l'attitudine contemplativa nell'apprezzare la pluralità anche all'interno dell'Islam italiano. Islam italiano che è composito come diverse sono le origini dei musulmani che vivono in Italia. Di qui la difficoltà a esprimere un'unica rappresentanza di fronte allo Stato.

A Verona ho partecipato a un seminario organizzato insieme da musulmani e cristiani. Si vedono regolarmente in amicizia, hanno discusso di Bibbia e Corano. Era presente il portavoce del consiglio islamico locale. Mi ha colpito perché di spirito vivo e di grande apertura. «Peccato per il tuo Paese - gli ho detto - che non ha saputo tenersi un uomo come te!». Hanno riempito un teatro di gente disposta a ragionare di un futuro insieme. Abbiamo provato a rispondere alla domanda su quali siano le buone ragioni per decidere di accogliere e non solo «rassegnarsi» ad avere una comunità musulmana in Val Padana. Non è auspicabile che le regioni italiane si rifugino nella protezione di identità mitizzate ed esclusive utilizzando lavoratori occasionali e precari, «vuoti a perdere » d'un sistema economico che non può fare a meno d'importare stranieri. A essere ingiusti ci si rimette sempre. La violenza esercitata verso altri si rivolge settaria e amara contro di noi. Meglio fare del nostro vivere civile un coraggioso laboratorio di processi globali. A prescindere dal fatto che l'Islam ormai c'è in Italia, è da sperare che esso possa coniugarsi con una società «cristiana » senza perseguire l'obiettivo di un'integrazione per assorbimento, ma invece possa partecipare con la ricchezza della sua differenza a costruire interazione, portando, per esempio, la forza simbolica della testimonianza monoteista, il senso della sacralità della vita sociale, la non separabilità di sacro e profano, il rifiuto dell'iconoclasmo di un laicismo inacidito. Sarà una comunità «protetta» dall'interdetto alimentare del maiale e dell'alcol e quindi assolverà una funzione sociale paragonabile a quella tradizionale delle presenze ebraiche in Europa. A voler rifiutare questa comunità musulmana, forse inconsciamente si continua a rifiutare quella ebraica. La creazione di quartieri-ghetto è la soluzione meno auspicabile, mentre la costruzione di moschee con centri di socializzazione e di mutuo aiuto è davvero indispensabile.

A Pavia eravamo nella facoltà di Scienze politiche. I giovani reduci dallo studio dell'arabo a Damasco hanno invitato me e un palestinese eletto al Parlamento italiano. Invece a Cori (Latina) eravamo in una sala comunale con contadini e operai immigrati accomunati da quella necessità d'essere essenziali propria dei rurali: vale ciò che vale, non ciò che è rinomato!

Alla fine del mio giro d'Italia non vedo l'ora di tornare nel deserto, scioccato dalle scritte xenofobe e nazifasciste, amareggiato dal vedere in piazza Duomo a Milano tanti spaesati ridotti a mendicare. Gli stranieri ben intenzionati sono vittime, con i cittadini italiani, delle opacità e della falsa tolleranza connessa con le paludi malavitose. Mille e mille iniziative locali si collegheranno in una logica globale a formare la rete della comunità globale a venire.

Questo Articolo era pubblicato nella edizione di aprile 2008 nella revista popoli

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